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Un valtellinese in Irlanda: intervista a Mirco Fondrini dell’Osteria Da Mirco

Di Domenico Raimondo

Dalla sua apertura nel 2018, l’Osteria Da Mirco offre piatti autentici della tradizione italiana, e soprattutto lombarda, nella centrale Bridge Street di Cork, in Irlanda.
Un piccolo locale raffinato e accogliente che da 5 anni è rifugio di buona cucina e ospitalità per italiani espatriati e irlandesi. Qui, questi ultimi hanno modo di provare e innamorarsi di una cucina più vera e curata rispetto agli stereotipi italiani di tanti altri ristoranti, con piatti tipici di tutto lo stivale meno conosciuti nel mondo, e alcune rivisitazioni in un menù che cambia periodicamente.
Dopo l’inserimento del 2019 nella guida Michelin, nel 2023 il ristorante ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti come quello di Best World Cuisine in Munster dell’Irish Restaurants Awards e 100 Best Restaurants in Ireland di McKenna’s Guides.

Proveniente da Morbegno, in Valtellina, lo chef, sommelier e proprietario Mirco Fondrini racconta il suo ristorante e cosa significa rappresentare la cultura culinaria italiana all’estero.

Come hai intrapreso il percorso che ha portato all’apertura dell’Osteria Da Mirco?

Ho fatto la scuola alberghiera a Chiavenna, in provincia di Sondrio, e ho sempre lavorato nella ristorazione. Però ho sempre fatto stagioni, periodi estivi, come cameriere e aiuto cuoco. Ho lavorato in Svizzera e 7/8 mesi a Londra. Poi a 21 anni sono venuto in Irlanda: Londra era troppo grande. Anche qui a Cork ho sempre lavorato nella ristorazione: per anni ho diretto il ristorante Farmgate Café sopra l’English Market. Già quando studiavo avevo il progetto di aprire qualcosa come un bar o un pub, ma ovviamente in Italia. Però con gli anni e l’esperienza la mia tecnica culinaria e conoscenza dei prodotti sono aumentate: ho fatto diversi corsi, tra cui la scuola di Iginio Massari a Brescia e sono anche diventato sommelier. Tutte cose per la mia crescita personale che però poi mi sono servite per aprire il mio ristorante. Ho anche fatto diversi viaggi culinari: California, Francia, Spagna, ho fatto un anno zaino in spalla e ho anche girato l’Italia per prendere spunti e idee. Questo fino ai 32/33 anni. Ho sempre avuto interesse per il mondo della ristorazione e del cibo.
Poi mi sono accorto di non voler più fare il manager al ristorante, di voler mettermi in gioco e aprire qualcosa. Essendo sommelier volevo che avesse a che fare col vino e che fosse italiana al 100%. Questo anche perché nei miei viaggi ho visto cose che danno un cattivo nome all’Italia: gli altri possono fare quello che vogliono, ma volevo fare qualcosa di mio nella maniera più originale e tradizionale possibile. Questa era quindi la mia visione che si è concretizzata aprendo l’Osteria.

Si può dire che il tuo sia un ristorante unico, in una città meno internazionale di Dublino ma che grazie a diversi fattori rappresenta in maniera diretta la tua idea di cibo italiano autentico?

La cucina italiana all’estero è molto improntata sugli stereotipi del sud, e magari qualche ricetta bolognese come la lasagna e il ragù. Io porto tanti piatti del nord: brasati, vitello tonnato, agnolotti, polenta, pizzoccheri (prima inediti a Cork, N.d.R.). Faccio anche piatti veneti, friulani, siciliani. Poi ho l’amore per la pasta fresca, che noi facciamo e che a me ricorda casa: la nonna, la domenica e tutte le tradizioni familiari.

Secondo me è più difficile fare un cibo non buono rispetto a uno buono: è difficile sbagliare se prendi del personale bravo, e lo paghi di conseguenza, e usi prodotti di qualità. Magari c’è una spesa per il consumatore, che però è soddisfatto. Credo di proporre dei piatti molto semplici, uso prodotti buoni, facciamo tutto fresco e seguo per la maggior parte ricette tradizionali, prese da libri di cucina ed esperienze personali.

Qualche anno fa in una tua intervista per una radio locale era venuta fuori la parola “ambasciatore”, nel senso di portavoce di una cucina straniera. È anche questo che ti spinge a lavorare sempre bene?

Non voglio riempirmi la bocca ma mi rendo conto che è una responsabilità. In Italia abbiamo risorse incredibili sotto ogni punto di vista, dall’arte alla biodiversità, dai ghiacciai alle spiagge. La cucina fa parte di questo valore. Io vivo all’estero e mi sento responsabile, a partire dalla scelta dei prodotti: una bresaola che non sappia di plastica, uno speck che non sia fasullo, uso il mio formaggio valtellinese, farine che ordino da un mulino vicino Como. Ordino dei pallet una volta ogni due mesi e faccio arrivare diversi prodotti dall’Italia. Il mio fornitore produce anche salumi come bresaola, salame e coppa; prende i formaggi dai contadini negli alpeggi in Valtellina vicino al mio paese. Molti di questi prodotti si trovano anche nei supermercati a Cork, ma li paghi tanto e sono scadenti. Cose che magari si possono mangiare a casa, io stesso sono di bocca buona, ma al ristorante ci tengo che tutto sia di qualità.
È questo che intendo per “ambasciatore”: capire e far capire la differenza dei prodotti. Magari all’inizio mi costa un po’ di più, ma in realtà alla lunga ci puoi solo guadagnare. Il problema è che forse tanti vedono la ristorazione come un campo facile in cui entrare e fare tanto profitto rivendendo a prezzi alti prodotti bassi, ma poi il cibo non è buono e neanche il servizio se sottopaghi i camerieri. Dicevo di sentirmi ambasciatore perché secondo me è importante a livello morale: io mi sento italiano e credo giusto promuovere la cucina italiana nel modo più positivo. Non potrei mai vendere qualcosa di falso, non mi sentirei a posto con la coscienza. Io stesso mangio là dentro due volte al giorno, non potrei vendere qualcosa che non mangerei.

Il ristorante è frequentato sia da italiani che da irlandesi. Credi che a Cork, e in generale all’estero, tra tanti finti ristoranti italiani e fast food, la gente sappia apprezzare la qualità e la vera cucina italiana?

Nel 2023 la gente viaggia e credo abbia imparato a capirla: da me vengono persone che vanno in Italia una volta ogni 1/2 anni. La generazione mia e della mia clientela, che va dai 35 ai 60 anni, è fatta quasi tutta da gente che ha visto il mondo. Io sono qui da 21 anni, quando sono arrivato l’irlandese medio, quindi della generazione di mio papà, non aveva viaggiato così tanto e non conosceva la cucina italiana.
A volte i clienti mi dicono: “Ah, ma quindi è questo il cibo italiano.” Perché magari sono abituati a un altro ristorante italiano a Cork e non sono mai stati in Italia. Poi la cosa che mi fa sempre più piacere è sentire i clienti italiani che dopo una cena dicono: “Mi sembrava di stare a casa.” O l’irlandese che dice: “Mi è sembrato di stare per 2/3 ore in Italia.” Non è solo il cibo, è anche l’atmosfera che c’è dentro e l’accoglienza del personale.
Quindi secondo me la gente capisce di più perché viaggia di più ma, detto questo, è anche un po’ come gliela vendi. Credo che la gente venga da me anche perché vendo una storia (Mirco è anche molto attivo sul profilo Instagram del ristorante dove racconta i piatti del menù,
N.d.R.). Se vendessi prodotti scadenti magari non avrei clientela italiana, ma quella irlandese forse potrei intortarla perché sono bravo a vendere qualcosa. Non lo faccio, ma probabilmente funzionerebbe. Quindi loro hanno aumentato la conoscenza, però sta sempre al ristoratore avere coscienza in ciò che fa.

Casoncelli vegetariani dell'Osteria Da Mirco
Casoncelli vegetariani dell’Osteria Da Mirco

Fai piatti della tradizione ma con un tocco dello chef che cerca di innovarli, con un menù che cambia spesso e con ingredienti italiani che sanno anche incontrare il gusto dei locali. C’è un piatto di cui vai particolarmente fiero e che secondo te ha rappresentato più di altri questo messaggio?

Ce ne sono 3, tutti a base di carne perché in Irlanda va molto. Il primo è tagliatelle al ragù bianco, che ho messo in carta il giorno che ho aperto e tuttora metto di tanto in tanto come piatto del giorno. È fatto con un ragù senza pomodoro che faceva mia nonna, con un brodo di manzo intensissimo cotto ore e ore, per poi farlo alla maniera classica con salsiccia di maiale, manzo macinato e pancetta. Lo cucini come un normale ragù sfumato e al posto del pomodoro allunghi col brodo. Questo piatto è stato un successo dall’inizio e la gente diceva: “Ah, non sapevo si potesse fare un ragù bianco.” È un piatto a cui sono parecchio affezionato, perché è il mio piatto.
L’altro è un piatto che faccio solo a Natale e tutti ne vanno pazzi. È una lasagna gratinata goccia d’oro, la faceva una rosticceria nel mio paese e la gente ne comprava le teglie da portare a casa per Natale: una lasagna bianca con dentro prosciutto cotto, salsiccia e funghi, a cui noi abbiamo aggiunto una crema al tartufo e il casera.
Il terzo risale all’apertura col primo chef che ho avuto, Paolo. Lui è di Brescia e faceva il tradizionale manzo all’olio. In seguito l’abbiamo fatto con gli altri chef, ci è sempre venuto buono ma mai quanto quello che faceva lui, essendo bresciano. Quello è stato un piatto che abbiamo servito anche all’ispettore della Michelin nel 2019, l’ha provato e se n’è innamorato, tanto da inserirci nella guida.
Il ragù bianco è quindi il mio piatto e sono orgoglioso perché è una ricetta di famiglia. La lasagna è un po’ la sorpresa natalizia. Il manzo è quello che ci ha fatto entrare nella guida Michelin.

Quindi in una cucina ricercata c’è anche il forte richiamo all’autenticità da osteria e alle tradizioni familiari.

Sì, io sono per la qualità ma sono anche una persona molto alla mano. Voglio che il cliente si senta come a casa. Voglio il servizio fatto bene: la pulizia, l’ordine, l’educazione… però non un servizio freddo che magari mette in soggezione il cliente. Siamo a Cork, non a Milano, Parigi o Londra.

In Italia e in Irlanda hanno chiuso diversi locali, per il Covid ma anche per altre ragioni. Voi come avete vissuto le difficoltà della pandemia e quelle economiche?

So che qui alcuni locali avevano difficoltà già prima e il Covid è stato il colpo finale, ma ora hanno riaperto sotto nuove gestioni. La mia fortuna è quella di essere in una zona trafficata, anche per la vita notturna (tanto che mi conviene aprire solo a cena). A noi il governo ha aiutato parecchio, sono riuscito a mantenere me stesso e altri 3 membri del personale per tutto il periodo facendo l’asporto e lo Stato mi dava il 60% dei nostri salari. Poi c’erano altri sussidi e il tutto mi ha permesso di restare aperto. Secondo me le maggiori difficoltà ci sono tuttora nelle zone rurali, dove passa poca gente, perché i costi in tutta Europa si sono triplicati rispetto al 2019: elettricità, gas, mutui. Ad esempio, a livello finanziario il 2023 per me è molto più difficile rispetto agli anni prima. Lavoro molto più rispetto all’anno scorso, eppure sono diminuiti i guadagni. Non mi sto lamentando, ma racconto solo com’è. Aumenta il lavoro e devo mettere personale extra, quindi sono spese in più, e i prezzi sono saliti. Poi c’è l’aumento degli affitti, quindi chi lavora deve avere un salario decente.
Sono tante cose che si sono accumulate e di conseguenza il guadagno è minore, ma fa parte del ciclo: ci sono anni in cui vai forte e altri meno. Il ristorante è sempre stato un progetto a lungo termine e questi alti e bassi erano previsti. L’importante è mantenere la qualità e lo standard, perché se perdi quelli perdi anche i clienti che hanno la possibilità di venire. Tutte queste chiusure quindi io non le ho viste, ma ho visto difficoltà per locali che partivano svantaggiati per la posizione o per la gestione.

Mirco Fondrini e il suo risotto alle capesante

Tendenzialmente, la ristorazione in Irlanda offre maggior equilibrio tra lavoro e tempo libero. Ad esempio, per ovviare al problema del personale e degli orari tu, tra le altre cose, chiudi domenica e lunedì.

Io ho sempre chiuso il lunedì pensando fosse più facile gestire il personale. Considerando che però sto facendo meno guadagno e la richiesta per venire da me è alta, dal primo lunedì di ottobre aprirò anche in quel giorno. Ho assunto una cuoca in più e saranno in quattro in cucina, quindi il personale lavorerà le stesse ore però il ristorante farà un giorno in più. Questo perché il lunedì tanti ristoranti sono chiusi e può essere un’opportunità per attirare quella clientela in più che vuole mangiare fuori. È un esperimento, vedo se funzionerà in questo momento un po’ più complicato.
Ora tutti vogliono i fine settimana liberi e fare le loro 36 ore. Ma non è che i giovani non abbiano voglia di sacrificarsi o di lavorare, è la mentalità generale e il sistema che sono cambiati. La ristorazione deve solo adeguarsi, magari chiudendo un giorno a settimana, fare quattro giorni lunghi di lavoro. Sono supposizioni, ma sta di fatto che in Italia ci sono problemi di personale, e anche qua, come dappertutto. La ristorazione ne soffre e nessuno fa niente. Non posso confrontare l’Irlanda e l’Italia, perché ci sono due sistemi diversi, ma in generale bisogna saper mantenere il personale, dai camerieri ai manager. Dev’essere gente preparata perché siamo tutti diventati più esigenti, e non si può far pagare €40 una cena o un servizio scadente.

Quindi provi ad adeguarti, tu come altri ristoratori, ai tempi e alle esigenze. La ristorazione in Italia ha invece una mentalità più stagnante. Credi che dovrebbe seguire un modello simile a quello irlandese? E se sì, perché invece molti rimangono ancorati a modelli controproducenti?

Quando vengo in Italia noto la tendenza, non solo nella ristorazione, di pensare che esistiamo solo noi. Le ferie con chiusure tutto agosto? Non si fa da nessun’altra parte ma noi “l’abbiamo sempre fatto”. Il mondo va avanti e noi no. Io spesso ho problemi a ordinare cose dall’Italia ad agosto perché è tutto chiuso. Viviamo nel nostro giardino credendo che questo giardino non abbia bisogno di cambiare, senza guardare cosa succede fuori. Il datore che magari guadagna bene non pensa a come funzioneranno le cose in futuro e quindi a far vivere l’azienda, ma pensa: “Siamo andati avanti così per 50 anni e va bene così, non mi interessa cosa fanno gli altri”. Ma per migliorarti devi anche prendere spunti. Io stesso da cuoco e proprietario mi confronto così che possa avere una visione più aperta e valutare cosa può funzionare.
Poi quando vengo in Italia e vedo com’è la ristorazione, penso che se tornassi come responsabile o chef dovrei fare 50 ore e guadagnerei la metà. La ristorazione vive anche tanto di nero, da Livigno a Pantelleria, e gli orari e le paghe sono decise dai datori in maniera vaga. Trovano scuse per non fare scontrini e magari sono gli stessi che si lamentano del disinteresse del comune o del governo, quando poi sono i primi a non pagare le tasse. Nessuno vuole cambiare niente, la verità è questa.

In una città relativamente piccola e meno trafficata delle capitali europee, ma comunque frizzante e vitale come Cork, quali sono le maggiori sfide per una persona e un imprenditore, e quali invece i vantaggi?

L’aspetto negativo di Cork e dell’Irlanda, sebbene trovare lavoro o aprire un locale non sia un problema, è l’enorme difficoltà a trovare un alloggio (da anni l’Irlanda vive una grossa crisi immobiliare, fatta di pochi alloggi a prezzi altissimi, N.d.R.). La situazione è un disastro: avevo un cameriere che ha rischiato di doversene andare perché non trovava una stanza. Per questo si fatica a trovare e tenere il personale.
L’aspetto positivo è che, quando fai le cose bene, la gente apprezza e non c’è invidia, neanche dagli esercenti vicini. Ho avuto tanto supporto e il giorno che ho aperto sono venuti tutti a farmi le congratulazioni. In Italia ho conosciuto molta più gelosia e invidia. Durante l’apertura, le battutine o le critiche sui lavori mi sono arrivate solo da amici italiani, abitanti a Cork o no. Amici anche molto stretti, ma italiani: gli amici irlandesi sono stati solo positivi e disponibili. Anche la gente di qui, quando apri qualcosa di nuovo, mostra tanta curiosità.

In un posto come Cork, ancora più piccolo di Dublino, la vicinanza delle persone si sente ancora di più.

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