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Com’è lavorare nella ristorazione: retroscena e aneddoti del settore senza leggi

Di Domenico Raimondo

Lavoravo in questo ristorante raffinato in centro. Ero in cucina a fare preparazioni per il servizio serale. Lo chef, 25 anni, era ai fornelli; mise del burro in padella e iniziò a dividerlo con la spatola come se fosse una striscia di… avete capito.
Mi guardò e rise: “Scusa, è l’abitudine”.
Se avete aperto quest’articolo è probabilmente per due motivi: 1. State valutando una carriera nella ristorazione. 2. Siete curiosi di conoscere il dietro le quinte dei vostri piacevoli momenti al ristorante.
Premetto che non sarà un racconto dolceamaro in stile Anthony Bourdain, ma un resoconto nudo e crudo di cosa significa lavorare nel settore che neanche Hollywood ha il coraggio di edulcorare (vedi film e serie TV tipo Chef, Burnt, The Bear, Ratatouille).

“Non fatelo”

Per iniziare vi basti sapere che se uno chef leggesse l’aneddoto in apertura non ne sarebbe sorpreso. Era una battuta, certo, e ognuno ha i suoi vizi. Ma quella per pane e pizze non è l’unica farina usata dai cuochi. E questo per un motivo tanto semplice quanto brutale: il loro è un lavoro frenetico e logorante, dal punto di vista fisico e mentale.
L’amore per la cucina non basta per considerare una carriera di questo tipo: bisogna essere un po’ matti o disperati.
Chiedete a qualunque chef un consiglio su come intraprendere un percorso nel settore. La risposta sarà: “Non fatelo”.
Siete alle prese con il pesce nel forno, la carne sulla piastra, la pasta in pentola e la salsa che cuoce. Una trincea dove i proiettili sono le continue ordinazioni dalla stampante il cui suono fa venire gli incubi la notte e, come se non bastasse, puntualmente i messaggeri dal campo (i camerieri) arrivano per dirvi che al tavolo 8 è arrivato il piatto sbagliato e al tavolo 11 aspettano da mezz’ora.
Velocità prima che qualità”, ripeteva sempre un mio collega con cui condividevo massacranti turni in pizzeria. È (anche) questa la parte più snervante: il tempo, perché in cucina sono in 3 e i clienti sono 100 (e possono essere 150 o 200 nello stesso momento, ma in cucina rimangono quasi sempre solo 3).

“Tieni duro finché riesci”

Un’estate, mentre ero di turno in questo ristorante piuttosto esclusivo, venni preso da forti attacchi di tosse e dolori al petto. Nel mio reparto c’era abbastanza personale quel giorno e lo chef mi permise di andare a casa. Poi scoprii di aver preso il Covid. Qualche settimana dopo, da solo durante il turno, avvertii gli stessi sintomi e informai lo chef. Risposta: “Non fare scherzi che oggi siamo messi male (in realtà ha usato parole più colorite, n.d.r.), tieni duro finché riesci”. E così tra tosse e starnuti continuai a sfornare pizze per gli ignari clienti.
Ma la colpa qui è dello chef e della sua irresponsabilità? No, la colpa è prima di un proprietario con decine di locali il cui unico interesse è incassare e sentire il meno possibile ciò che accade nelle sue cucine, e poi di un settore professionale dimenticato da leggi, da statuti, da sindacati e da Dio. Un mondo fatto di turni da 13 ore, bartender che sollevano casse di bottiglie e fusti di birra su e giù per le scale come magazzinieri (ma senza le stesse tutele assicurative sul lavoro), responsabili che prima del turno ti dicono: “Ué, vieni 20 minuti prima così lavi i vetri fuori dal locale, sono un po’ unti”.
È un settore in cui i turni della settimana vengono spesso comunicati la domenica sera, e gli orari possono cambiare il giorno stesso: “Senti c’è più clientela del previsto e siamo a corto di personale, puoi rimanere un paio d’ore in più?” Certo, come no, addio piani che avevo per la serata o qualsiasi cosa riguardi la mia vita privata.

Vita privata. Potete pressoché dimenticarla se lavorate nella ristorazione. Al datore serve qualcuno sempre disponibile, 7 su 7 per qualsiasi imprevisto che puntualmente si verifica. Dimenticate hobby o progetti, studio, serate con amici e feste coi parenti. E se volete prendervi un giorno libero per quell’evento a cui volete assolutamente andare, dovete iniziare a implorare con almeno due settimane d’anticipo il direttore, mentre quest’ultimo non si fa problemi a togliervi l’unico giorno di riposo della settimana in caso di bisogno, senza avvertirvi. È un settore in cui, almeno in Italia, il part-time non esiste: bisogna dare la vita e sputare sangue per il ristorante. E non pensate di poter fare questo lavoro per mantenervi mentre ambite ad altro: è un settore che vi ingloba e vi corrode, vi logora e vi corrompe. Ogni sera siete troppo stanchi o frustrati per dedicarvi ad altro e ogni mattina avete bisogno di dormire dopo un turno finito all’una di notte. O magari avete fatto il “turno spezzato”, dove iniziate la mattina, avete 2/3 ore di pausa per poi ricominciare la sera fino alla chiusura: la giornata è rovinata e magari il giorno dopo ricominciate alla stessa ora dopo 4 rigeneranti ore di sonno. Così vi ritrovate dopo anni ancora nello stesso circolo vizioso. Però ehi! Vi hanno fatto responsabili e magari vi hanno dato €200 di aumento. Yuppi!

“Giusto così”

Non esiste il lavoro perfetto, e di mestieri estenuanti ne esistono anche al di fuori della ristorazione. Vero, ma in molti di questi si può almeno aspettare con trepidazione l’ora di fine turno, quella triste gioia di guardare l’orologio e vedere che le lancette sono quasi all’orario di chiusura. Ecco, questa invece è una condanna per tanti addetti alla ristorazione. Perché l’orario di chiusura, dopo una giornata passata a correre, urlare e impazzire, equivale al momento delle pulizie. E quindi via di sgrassatore sui tavoli e fornelli, via a lucidare posate e bicchieri e via di scopa e mocio sui pavimenti mentre la testa vi scoppia e le gambe chiedono aiuto.
Una volta lavoravo in questo ristorante che non offriva il pasto al personale, bisognava portarselo da casa (ma non si poteva tenere in frigo, tra l’altro). Il mio collega diceva che era giusto così, perché “in altri lavori non puoi prendere gratis quello che si produce”. Tralasciando che è vero solo in parte, gli “altri lavori” non ti tengono tutto il giorno chiuso a correre e soprattutto non ti chiedono di lavare il pavimento una volta finito.

Apriamo un’altra parentesi, o meglio un altro monito. Se pensate di intraprendere una carriera come cuochi, bartender, camerieri o simili, e dopo quanto letto non avete ancora cambiato idea, chiedetevi una cosa: vi piacerebbe farvi urlare addosso, sentirvi dire in continuazione che siete troppo lenti o che non sapete fare un cazzo?
C’è gente per cui questo è uno stimolo, è parte dell’azione. Se è il vostro caso allora procedete, serve gente come voi. Se invece vi farebbe strano che vi sbraiti addosso qualcuno che dopo il turno torna a essere Dottor Jekyll, allora pensateci due volte, perché la ristorazione fa questo anche alle persone più buone e gentili.

“1000 euro a chi mi trova uno chef”

Un dato significativo è la mancanza di personale nei ristoranti, la difficoltà di trovare e tenere cuochi e camerieri (a un mio conoscente il datore ha offerto 1000 euro per trovargli uno chef). Arrivati a questo punto dell’articolo non dovrebbe stupirvi, specialmente pensando che spesso a lamentarsi sono gli stessi proprietari che offrono turni da 12 ore, con tanto di pulizie certosine e mansioni da facchino per 6/7 euro all’ora (in nero). E non apriamo neanche la parentesi dei giovani che “non vogliono lavorare”.
È per questo che nelle sale e nelle cucine ci lavora gente di ogni genere. Come quel lavapiatti con cui lavoravo, scoperto la notte a dormire nel retro e morto di overdose qualche giorno dopo. O il cameriere che durante uno dei suoi frequenti scatti di rabbia ha fatto a botte con lo chef. L’hanno licenziato? Macché, come lo rimpiazzi? L’hanno trasferito in un altro locale.
Poi ci sono altre categorie. Finora, forse, avete creduto che a servirvi al ristorante fossero solo professionisti usciti dall’alberghiero. Ricredetevi e siate più gentili: a portarvi da mangiare potrebbe esserci la ragazza che lavora per mantenere il figlio. Lo studente di informatica che non ha tempo di preparare gli esami. Gente che non può campare coi propri dipinti o i propri spettacoli di teatro. Un ex collega avrebbe voluto diventare responsabile delle risorse umane, ma a 30 anni non aveva altra esperienza che non fosse vicina a un forno: a 18 anni aveva fatto una prova in pizzeria e “a quell’età quando vedi i soldi ti impressioni”. Così, 12 anni e un corso in panificazione dopo, la sua vita lavorativa appariva vincolata a soli 30 anni.
Ma non solo: un giovane chef che conosco (scuola alberghiera e “passione per il mio lavoro”) non ne poteva più e ora lavora in un negozio di vestiti.
Questo perché la ristorazione porta tutti allo stremo (l’ho già detto?); è quel magico mondo dove tutto è possibile: 8/9 ore in piedi senza pausa, cibo, acqua o caffè. Oppure la pausa è di 20 minuti in cui mangiare, andare in bagno e se si è abbastanza veloci c’è pure il tempo di una sigaretta. O ancora la “pausa pranzo” vuol dire mangiare seduti per terra e tenersi pronti nel caso di ordini.
È per questo che anche nella trattoria italiana più tipica i cuochi sono spesso stranieri. Magari hanno iniziato come lavapiatti o in qualche kebabberia per poi ottenere il ruolo che in pochi vogliono ricoprire (anche nel ristorante stellato, dove il piatto che paghi 50 euro magari è fatto da uno stagista sottopagato).

Forse, però, dopo tanta deiezione buttata su questo settore, c’è spazio per qualche parola gentile. Perché sì, nonostante tutto la ristorazione permette a tanti giovani di trovare lavoro subito, arrivando a poco più di 20 anni con una macchina pagata, una casa di proprietà e la parola “chef” nel curriculum.
Soprattutto, al netto delle urla, dei crolli nervosi e degli insulti, è un ambiente fatto di gente meravigliosa arenata sulla vostra stessa barca, con cui poter parlare di ogni cosa durante i turni. Ma spesso l’argomento preferito è quanto vi faccia schifo il posto di lavoro.

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