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Storia della cucina italiana: dalla Preistoria al Rinascimento

Di Dioniso Zucca

La nostra penisola, che ha scelto la sua casa nel mite Mediterraneo a metà strada tra il Polo e l’Equatore, è sempre stata generosa con chi ha saputo trattarla, curarla ed amarla, offrendo in ogni stagione una grande varietà di prodotti della terra che la necessità (e l’ingegno umano) ha poi trasformato nella alimentazione quotidiana.

Le origini

Ci sono giunte testimonianze di come ci si alimentasse nell’Italia preistorica, come ad esempio le iscrizioni rupestri nelle grotte dell’Addaura in Sicilia. Queste testimonianze ci raccontano già nel paleolitico (da 2,5 milioni fino a circa 12.000 anni fa, quando l’uomo controllava già agevolmente il fuoco) di una alimentazione frugale, ricca di selvaggina, mammiferi di grossa taglia e vegetali, cucinati sul fuoco in recipienti di corteccia o costruiti con i resti della macellazione.

Con il passaggio al mesolitico (tra 11.000 e 8.000 anni fa) l’adozione su larga scala dell’agricoltura e di uno stile di vita più stanziale causa un mutamento dell’alimentazione.

Viene maggiormente apprezzata la carne di mammiferi di piccola e media taglia come capre, pecore, conigli, maiali. Si consumano più specie vegetali e frutta tra cui corbezzolo, uva, olive fino ad arrivare addirittura alle ghiande.

La rivoluzione del neolitico (tra 8.000 e 3.500 anni fa) porta al completamento la domesticazione di molte specie ovine, caprine e vaccine. Si perfeziona la selezione del grano e dell’orzo e si iniziano a governare i processi di fermentazione alcolica e della caseificazione, oltre a un largo uso di legumi come fonte proteica.

La cucina Romana

L’epoca Romana è stata il primo lampo di fulgore del nostro (futuro) Paese, ha soggiogato il mondo conosciuto e contribuito alle sue fortune e alle sue disgrazie in maniera consistente, espandendosi da occidente ad oriente in modo tentacolare e rapido.

In questi anni (dall’800 A.C fino al 476 D.C) la cucina si è evoluta grandemente, beneficiando dei progressi agronomici e zootecnici.

Vi è stato un notevole progresso nei processi di caseificazione e del governo dei processi fermentativi, oltre alla possibilità di importazione di una serie di prodotti che non erano disponibili sul suolo italico ma che si potevano trovare in abbondanza in altri angoli dell’impero.

Sappiamo da Apicio, autore del compendio gastronomico “De re coquinaria” che l’alimentazione Romana si basava principalmente sui cereali, legumi, formaggi, frutta, pesce povero e carne, lasciando intravedere già il telaio su cui poggerà la cucina contemporanea.

De re coquinaria di Apitio

La particolarità del periodo è il bizzarro (per i gusti odierni) abbinamento dei sapori che ricorda per certi versi le cucine medio orientali contemporanee. Non era affatto inusuale accostare miele e pepe, oppure il Garum (una salsa di pesce) e ligustico, una pianta che ha un sapore a metà tra prezzemolo e sedano.

La costante era un utilizzo delle spezie totalmente incompatibile con i parametri odierni, paragonabile più alla cucina indiana che a quella che conosciamo oggi.

L’agrodolce degli accostamenti nella cucina Romana ricorda quello di salse e pietanze della moderna gastronomia indiana

Venivano consumati anche animali che oggi sono considerati, usando un eufemismo, poco appetitosi, quali ad esempio il ghiro ed il pavone (spesso presenti sulle tavole nei banchetti Patrizi) insieme ai più tradizionali maiali, capre, polli, anatre.

La tipologia di carne consumata variava enormemente a seconda dello status sociale, giacché i tagli migliori e più pregiati erano appannaggio dei più ricchi. Discorso analogo per il pesce, visto che ai ricchi erano destinati i pesci più grandi e saporiti, mentre ai poveri venivano lasciate le tipologie di pesce che oggi definiamo “da frittura”.

Gli alimenti venivano cotti in pentole e padelle di metallo simili a quelle che utilizziamo ancora oggi.

Il vino dell’epoca era ancora di qualità scadente, molto acido e con poco corpo a causa delle malattie che colpivano il mosto in fase di fermentazione, e richiedeva pertanto di essere “addomesticato” con l’utilizzo di miele e spezie.

Il Medioevo e il Rinascimento

In questa grande finestra storica la cucina conosce un’altra grande evoluzione. Il perfezionamento delle tecniche agricole consente raccolti più abbondanti (anche se non mancano le carestie dovute ad epidemie, guerre o eventi climatici estremi).

Di contro il disboscamento attuato per guadagnare terreno coltivabile priva una grande fetta di popolazione della selvaggina, che diventa esclusivo appannaggio dei nobili signori e delle loro battute di caccia, lasciando al popolo quasi esclusivamente gli animali da cortile che era possibile allevare nei pressi delle abitazioni.

Nelle abbazie e nei conventi si sviluppano ancor di più la caseificazione (nascono formaggi quali Grana e Gorgonzola) e la produzione di bevande alcoliche come le celebri birre d’abbazia.

Nelle fattorie si allevano e selezionano con successo le specie che costituiscono il bestiame tutt’oggi allevato. Si producono insaccati e conserve ma in gran parte la cucina medievale rappresenta una evoluzione della cucina romana.

L’alimentazione poggia ancora sui cereali. Vengono valorizzati il riso, il grano, il farro, il sorgo, il panico. La dieta si impernia ancora sui legumi tra i quali si segnalano piselli, lenticchie, fave, fagioli e sulle verdure come lattughe, cavoli, radici, cardi, zucche, finocchi, carote, cetrioli per citarne solo alcuni.

È solo con l’approssimarsi della fine del Medioevo che l’evoluzione si fa più sostanziale. Compaiono sulla scena alimenti a noi fortemente cari: si diffonde, dopo i viaggi di Marco Polo, la pasta nei suoi vari formati. Acquisiscono popolarità le paste ripiene e non (i primi pastifici noti sono del tardo 14esimo secolo). Si afferma un grasso utile per la cottura come il burro, che si affianca ai più familiari oli, strutti e lardi.

Inoltre si fa largo uso di erbe aromatiche e frutta secca. Si coltivano decine di piante da frutto, si preparano diversi tipi di pane e polente, si producono e consumano formaggi quali la ricotta, la provola, la mozzarella. Si raffinano ulteriormente i processi di vinificazione e pertanto cade in disuso l’abitudine di adulterare il vino con spezie e dolcificanti, e vengono selezionati vitigni più resistenti alle malattie.

Si perfezionano le modalità di cottura e si diffonde la frittura, l’impanatura, la sigillatura delle carni fino a quando, nel 1456, Martino De’ Rossi, cuoco al servizio degli Sforza di Milano, scrive il primo vero ricettario della cucina italiana: il “Libro de arte coquinaria”. Da quel momento la popolarità della cucina italiana crescerà nelle corti europee.

Ma questa è un’altra storia…

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