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Little Italy di New York: quartiere etnico o caricatura per turisti?

E di quella volta in cui ho mangiato in un’istituzione newyorkese senza saperlo

Di Domenico Raimondo

Mulberry Street, angolo con Hester Street: un ristorante attira la mia attenzione e appetito.
Mi avvicino all’entrata. Lì c’è un tavolino con gente sull’ottantina che chiacchiera tra un espresso e un amaro. Sembrano vorticare attorno a una signora. È ingioiellata, riccamente vestita, composta e quando parla con un filo di voce nessuno osa interromperla.
Una passante – zaino in spalla e guida di New York sotto braccio – si avvicina timidamente, quasi con reverenza: “Volevo solo salutare la signora e ringraziarla: quando sono venuta a mangiare ci ha accolto come ospiti e ci ha offerto il caffè.
Non c’è di che – risponde lei senza scomporsi – mi fa piacere.

Ma hai appena mangiato?” Chiede un uomo seduto allo stesso capannello.
No, due anni fa ho mangiato.
Due anni fa? Mi’ che fame che devi tenere!


Questa è Little Italy a Manhattan. Sfacciata, fiera, per certi versi pacchiana, ma ricca di fascino, storia, cultura.
Il ristorante in questione si chiama Caffe Napoli, e la matrona descritta è la proprietaria Anna Silvestri.
Incuriosito dal siparietto entro nel suo ristorante, dove la luce di un lampadario di cristallo si riflette sul pavimento in marmo verde.
Ad accogliermi e a servirmi durante la cena è uno spilungone dalla carnagione scura, viso e postura da modello.
È tutto sorrisi e calorosi convenevoli.
Sei italiano?” Mi chiede.

Mi spiace, non parlo italiano.” Esclama prima di scoppiare a ridere e parlare inglese con accento ispanico.
Con qualche sorpresa leggo i diversi errori ortografici nei nomi dei piatti italiani nel menù. Ordino le Fettuccine Alfredo (posto che vai…) e le trovo anche buone, d’altronde è difficile trovare cattivi pasta e formaggio. Ma pure i “Bucatini al’ Amatriciana” e gli “Spaghetti & Meatballs” si fanno apprezzare.
Finito il pasto il cameriere mi saluta con un bacio su ogni guancia, e continuo a esplorare il quartiere.


Quello che dovrò ancora scoprire è che Caffe Napoli è un pezzo di storia italiana a New York. Un simbolo di Little Italy.
È in attività dal 1972, quando la famiglia Silvestri, immigrata da Napoli nei primi del ‘900, aprì ciò che inizialmente era un semplice bar.
Tutto ciò dopo che i Silvestri vissero in Italia per un periodo, che coincise con la Seconda Guerra Mondiale, per poi tornare in America dove Anna era nata e, tempo dopo, avrebbe preso in mano il locale e trasformato in un ristorante di punta della città. Sarebbe quindi diventata “La Signora Anna” nonché un punto di riferimento per italo-americani e napoletani in visita alla Grande Mela.

La sua storia, qui sinteticamente raccontata, è una delle cartoline da visita più icastiche della Little Italy più famosa di New York. Già, perché ne esiste un’altra nel Bronx che tante guide turistiche affermano essere più autentica, meno turistica.
Ma quella di Manhattan è davvero solo una macchietta da film americano, una caricatura che attira turisti al suono di “”, “Maronn’” e “Gabagool”?
Un primo sguardo suggerirebbe proprio questo: ristoranti (quasi solo ristoranti) dalle insegne tricolore, loghi di omini panciuti coi baffi e nomi come La Nonna, L’Amore, Benito One e Paesano.

D’altronde è quasi palpabile l’evoluzione, culturale e commerciale, da quelle prime ondate di immigrati italiani a cavallo tra 19° e 20° secolo.
Da allora sono passati decenni, generazioni e serie TV che hanno riplasmato una cultura (ma è per questo meno affascinante?). Basti pensare che dietro l’angolo si trova Lombardi’s: la prima pizzeria a New York fondata da un immigrato italiano, che ha dato il via a quel movimento gastronomico-culturale che è la pizza americana.

Inoltre, Little Italy ha subito un graduale restringimento, con l’espandersi dell’adiacente Chinatown, tanto che ormai quello che era un vero e proprio quartiere, è oggi rilegato pressoché alla sola Mulberry Street.
Eppure passeggiando per quella via si respira un’atmosfera… italiana. Sì, per quanto infiocchettata, commercializzata, per quanto strozzata da palazzine newyorkesi di ‘800/’900 (quelle in mattoni con le scale antincendio a vista, per intenderci). Little Italy è “gestita” per lo più da italiani, anche di prima generazione, che qui hanno mantenuto tradizioni e ne hanno create di nuove. Non è raro captare conversazioni per strada in dialetti meridionali, come si fosse nella piazza di un paesino del Mezzogiorno, anziché tra i palazzi di una delle più grandi metropoli al mondo. Baracchini sui marciapiedi propongono dolci siciliani o campani; persone sedute ai tavoli di bar e ristoranti bevono caffè o grappe e chiacchierano… in italiano.

Ricordo di quando, guardando lo schermo-menù di uno dei ristoranti italiani, sento un turista accanto a me esclamare: “Sì ma, 18 dollari per un’insalata?” “Eheh, siamo a New York.” Risponde l’acchiappino con accento lombardo. “Mica a Bassano del Grappa in mezzo alle campagne.
Saremo anche a New York come dice lui, ma questa è una risposta molto italiana.

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